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GIOVANNI DE’ VECCHI

Il dipinto era collocato originariamente sull’altare della cappella di Sant’Anna nel Duomo di Spoleto, completamente rinnovata nel 1597 a spese del nobile spoletino Cesare Glandi; la Sacra Visita Barberini lo descrive nel 1610 nella cappella della quale ne riporta anche l’iscrizione dedicatoria, oggi perduta.
La tela, che reca la firma del pittore in basso a sinistra su di un cartiglio: IO VECCHIS De BU[GO] / [F]ACIEBAT, dopo i lavori di rifacimento dell’interno del Duomo dovuti all’ iniziativa del cardinale Francesco Barberini, venne trasferita nell’ex Monastero di San Matteo trasformato in magazzino comunale dopo la soppressione del convento. Riscoperta nel 1974 fu successivamente restaurata e collocata nella Civica Pinacoteca. L’opera è oggi esposta nella Sala dei Duchi del Palazzo Comunale.
E’ stato possibile conoscere l'autore del dipinto solo dopo le operazione di restauro che hanno permesso la lettura della firma dell'importante pittore della seconda metà del XVI secolo che testimonia l’irradiarsi della cultura manierista romana in Umbria e, che come lo definì Federico Zeri, fu uno dei protagonisti del “manierismo internazionale” e della evoluzione della pittura sacra a Roma.
La tela, pervasa da un sentimento di devozione, raffigura in alto fra una avvolgente cortina di nubi e piccoli putti la Vergine e Sant'Anna in gloria che sostengono il Bambino benedicente, mentre in basso, su un fondo di paesaggio animato da architetture fantastiche classicheggianti, sono in perfetta simmetria i Santi Francesco e Chiara raffigurati con i prispettivi attributi.
Giovanni De’ Vecchi, allievo di Raffaellino del Colle e di Taddeo Zuccari, si inserì nella cerchia artistica romana lavorando per il cardinal Alessandro Farnese e fu tra i maggiori decoratori del palazzo Farnese a Caprarola. Tra le imprese più prestigiose della sua carriera va senz'altro annoverata la decorazione della cupola e dei pennacchi della chiesa del Gesù, sostituita dai successivi affreschi seicenteschi, di cui restano però le testimonianze scritte del Baglione (1642) e del Celio (1638).

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Giovanni Carandente
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