Mario Ceroli, Balcone, 1966, legno
Mario Ceroli (Castel Frentano, 1938), che si era formato all’Accademia di Belle di Arti seguendo i corsi di ceramica di Leoncillo ed è stato assistente di Ettore Colla, ha contraddistinto la sua opera fin dalla fine degli anni ’50 per un uso praticamente esclusivo (pur essendosi servito anche di ferro, vetro, bronzo, ghiaccio, terre) del legno grezzo da imballaggio, quindi già trasformato dall’industria in tavole funzionali all’uso. Pur avendo preso parte dal 1967 alle prime mostre dell’Arte povera, per lui il legno non è quindi materia naturale ma già artefatta e legata al mondo del consumo, caratteristica che gli è valsa l’appellativo, anche per l’uso ripetuto di iconografie di massa, di artista Pop italiano.
L’opera è entrata a far parte della collezione del Comune di Spoleto (convogliata dal 2000 nell’allora Galleria Civica d’Arte Moderna, oggi semplicemente Galleria d’Arte Moderna) nel 1966, anno in cui l’artista ottenne il primo premio acquisto del Premio Spoleto grazie a una commissione giudicatrice composta da Maurizio Calvesi, Giovanni Carandente, Andrea Emiliani, Leoncillo Leonardi e Francesco Fanti. Quell’anno, che vide assegnare il secondo premio alla Coda di cetaceo di Pino Pascali (anch’essa presente nella collezione della Galleria), segnò praticamente le sorti dello stesso Premio Spoleto (alla sua penultima edizione), che per la prima volta si sbilanciava apertamente vero le recenti sperimentazioni delle cosiddette neoavanguardie, di cui appunto Ceroli e Pascali erano gli astri nascenti e sulla cresta dell’onda. Ceroli quello stesso anno aveva preso parte alla Biennale di Venezia ottenendo il primo premio per la scultura (aveva solo 26 anni) grazie all’opera Cassa Sistina, una delle prime delle varie sculture installative che lo avrebbero reso celebre e con le quali avrebbe realizzato allestimenti e scenografie per il teatro, per l’opera lirica (la Scala di Milano o il Teatro Stabile di Torino) e per la televisione.
Il Balcone esposto nella collezione di Spoleto rappresenta una sorta di omaggio silenzioso a opere dallo stesso titolo realizzate da Goya (Majas al balcone del 1814) e Manet (Il balcone del 1868) ed è anche una scultura a suo modo ambientale, un affaccio virtuale nello spazio del museo immaginato come la scena di uno spettacolo interno ed esterno allo stesso tempo, fatto dagli stessi visitatori. Un’opera installativa che idealmente unisce due spazi differenti, fatta per essere guardata ma anche da cui essere osservati o osservare il mondo.
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