Francesco Manno (Palermo, 1754 – Roma 1831), Ritratto di D. Stefano Ascanio Giannetti, olio su tela,
Il dipinto raffigura Stefano Ascanio Giannetti, nato da famiglia lucchese nel 1757 ed entrato nell’Ordine dei Benedettini olivetani all’età di sedici anni percorrendo una brillante carriera che lo portò a ricoprire l’importante carica di archivista della Procura Generale, curando tra l’altro i rapporti tra la congregazione olivetana e la Santa Sede e che culminò nel 1824 con l’elezione ad abate generale da parte del Capitolo.
Sul retro della tela originale in una iscrizione ritenuta tardiva si leggeva oltre al nome del monaco effigiato nel dipinto anche il luogo, la data di esecuzione e l’autore ovvero Francesco Manno professore, ed Accademico di S. Luca in Roma anno 1798.
La tela risale al periodo del soggiorno romano del Giannetti presso il monastero di S. Francesca Romana e coincide con l’attività svolta nella capitale dal pittore palermitano Francesco Manno, giunto a Roma intorno al 1786, dove subì l’influenza del classicismo di Pompeo Batoni.
Pur inserendosi nella cultura romana di fine secolo, il dipinto risulta di una qualità superiore rispetto all’ampia produzione sacra del Manno, alla quale se ne discosta per un maggior rigore e sobrietà e per il recupero di motivi del classicismo seicentesco, rivelando al contempo un’inclinazione di precoce gusto “purista”.
Il benedettino olivetano viene qui ritratto di tre quarti nel suo abito monastico mentre distoglie lo sguardo dal libro che tiene in mano per volgerlo verso l’osservatore; il volto assorto e l’abito monastico emergono tra la luce piena e le ombre modellanti.
Nella cospicua documentazione dell’attività pittorica del pittore siciliano non vi sono riferimenti ad alcun ritratto ad eccezione di quello raffigurante la pittrice Maria Maini e donato dall’artista all’accademia di San Luca nel 1822; il dipinto qui presentato rappresenta pertanto quasi l’unica testimonianza conosciuta della sua attività di ritrattista.
Non si hanno notizie documentate sul motivo della presenza del dipinto nella Pinacoteca Comunale di Spoleto. Un’ipotesi plausibile è quella di un legame familiare tra il monaco e la dinastia di argentieri dello stesso cognome attivi in città, ma di cultura romana sin dalla fine del secolo XVIII.
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