Eliseo Mattiacci (Cagli 1940 – Fossombrone 2019) è stato uno dei protagonisti di quel gruppo virtuale di artisti della neoavanguardia che è nato a Roma verso la metà degli anni Sessanta e che poi ha trovato accoglienza negli ampi spazi undergorund, quelli di un ex garage, della Galleria dell’Attico di Fabio Sargentini. Con altri protagonisti di quel periodo, come Pascali e Mochetti (di cui entrambi è stato grande amico), Mattiacci ha declinato la sua poetica in opere spesso capaci di disporsi in modo anarchico nello spazio, come il suo celebre Tubo giallo di 150 metri, esposto prima alla Galleria La Tartaruga di Roma e poi in mostre epocali come Lo Spazio dell’immagine a Foligno e Arte povera e im-spazio a Genova nel 1967.
La sua scultura, praticabile e non, ha un’ampia gamma di riferimenti iconografici, dall’antropologia alla cosmologia, a cui dedica un gran numero di sculture e installazioni, per arrivare a congegni provvisti di enormi magneti, sonde spaziali, fantastici carri solari o l’uso di vere e proprie motociclette tenute in bilico su travi di acciaio. La sua idea di scultura e arte è stata sempre espansa e in bilico tra attaccamento alla terra e desiderio di portare l’arte oltre i confini terrestri.
Nel 1972 alla Biennale di Venezia espose una grande catasta di libri di piombo nell’installazione dal titolo Cultura mummificata, a cui si riferisce l’esemplare di libro in piombo conservato nella Galleria, a cui si aggiunge anche una enigmatica scultura che rappresenta un muro curvo trafitto da una freccia, una sorta di emblematica rappresentazione della freccia del tempo e dello spazio curvilineo non euclideo, elementi che fanno parte integrante dell’immaginario cosmologico di Mattiacci. Opere irriducibili l’una all’altra, testimoniano dell’indifferenza dell’artista allo stile e del suo tentativo di inventare un linguaggio carico di evocazioni che andassero ben oltre la gravità e il peso delle opere e dei loro materiali.